Il complesso nuragico di Sant’Imbenia nel quadro dei rapporti di scambio del Mediterraneo
Emanuela Saba
Cenni sulla storia dei nuraghi
Età nuragica (1500-VI sec. a.C.)
Intorno alla media Età del Bronzo e la prima Età del Ferro anche nella Nurra (regione geografica in cui è situata la cittadina di Alghero) si avverte il fervore culturale che sembra caratterizzare l’intera Sardegna, come testimonia la presenza di decine di nuraghi, villaggi, tombe e materiali vari di questo periodo. Questa abbondanza di testimonianze nuragiche è indicativa di un popolamento intensivo dell’intero territorio.
I numerosi nuraghi della Nurra e in particolare ricorrenti nell’attuale territorio comunale di Alghero talora sono stati eretti arroccati sulla cima di un’altura, ma principalmente sono disposti nelle aree pianeggianti, lungo la costa e nell’immediato entroterra di Porto Conte, quasi sempre in posizioni strategiche per il controllo di approdi, vie naturali e corsi d’acqua.
Nella Carta “nuragografìca” del Nissardi pubblicata dal Pinza, i nuraghi attribuiti ad Alghero sono ben 96, sei dei quali sono illustrati graficamente.
Purtroppo, i lavori di bonifica avviati nella regione a partire dagli anni ’30 ed intensificatisi negli anni ’50 hanno portato alla completa distruzione di una trentina di nuraghi: vale a dire che il 33% dei monumenti già segnalati sono totalmente scomparsi.
Per quanto riguarda quelli che si possono ancora osservare, si tratta per lo più di nuraghi semplici, anche se non mancano strutture complesse, in gran parte demoliti oppure parzialmente interrati ed invasi dalla vegetazione arbustiva. Inoltre, opere difensive attuate nel corso del secondo conflitto mondiale sulle strutture di alcuni di questi nuraghi, hanno contribuito alla loro distruzione o ad alterarne la planimetria.
Questi nuraghi dell’Algherese sono costruiti in pietra locale – arenaria, trachite e calcare – talora in opera mista: calcare ed arenaria nel Palmavera, trachite e calcare nei nuraghi Biancu, La Piccas, Paula Tolta, Flumenelongu.
A parte gli abitati di Palmavera e di Sant’Imbenia, riportati in gran parte alla luce in seguito a regolari campagne di scavi, si segnalano numerosi villaggi per lo più in prossimità di nuraghi – anzi si può dire che gran parte dei nuraghi abbiano nei loro pressi un agglomerato più o meno vasto – ma talora anche isolati.
Di notevole interesse le indagini stratigrafiche condotte in questi anni nel villaggio nuragico di Sant’Imbenia, sia per la varietà delle strutture emerse, sia per i copiosi e significativi materiali rinvenuti, fra i quali ceramiche di importazione egea, ad attestare intensi ed antichi rapporti commerciali con aree extrainsulari.
Per quanto riguarda le tombe dei giganti, il monumento funerario tipico dell’età nuragica, nel territorio di Alghero in passato ne sono state segnalate soltanto 5, ora scomparse. Il numero, comunque, pare del tutto insufficiente rispetto alla massiccia presenza, non solo di nuraghi, ma soprattutto di villaggi ad essi correlati. È tuttavia probabile che in questo territorio la presenza di tombe di giganti dovette essere piuttosto esigua, ciò potrebbe essere spiegato con l’esistenza in questa area di numerose domus de janas (tombe risalenti al Neolitico Recente e usate continuativamente per certo fino all’età del Rame), che in qualche modo avrebbero condizionato e limitato l’architettura funeraria nuragica. In questo senso è ipotizzabile che le domus de janas siano state riutilizzate in molti casi durante l’età nuragica.
Una conferma di quanto detto proviene dallo scavo della Tomba VI di Santu Pedru, nei pressi della quale vi è un nuraghe, ove si è potuto documentare un riutilizzo esclusivo e totale della tomba in età nuragica. Infatti l’ipogeo è stato perfettamente ripulito e riutilizzato per deposizioni nuragiche con ricchi corredi di vasi.
Inoltre, la forte componente ipogeica che caratterizza il Sassarese, ha fatto sì che proprio in questa regione della Sardegna nord-occidentale venissero riutilizzate, o scavate ex-novo, delle tombe ipogeiche “consacrate” scolpendo nella roccia la tipica stele delle tombe di giganti.
Dal nuraghe Flumenelongu proviene un ripostiglio di Bronzi[1], mentre in una località chiamata Monte Carru si rinvennero casualmente due accette a margini rialzati ed un frammento di tazza carenata con decorazione plastica “a ferro di cavallo”.
Dalla località Lazzaretto, forse in relazione al villaggio di Palmavera che si estendeva su quel versante, provengono due grandi ziri per derrate di forma globulare e a colletto, con anse ad X. Uno di essi presenta, tra il fondo e la parete, un fitto restauro con grappe di piombo secondo una tecnica largamente documentata nella Sardegna nuragica e che trova numerosi esempi anche fra i materiali fittili di Palmavera, sia in grandi contenitori (ziri, orciuoli, olle) che in vasi di più modeste dimensioni (brocche, tazze).
Di grande interesse la recente scoperta di un pozzo sacro in opera isodoma, in loc. La Purissima.
Il bronzetto proveniente dal nuraghe Flumenelongu sembra costituire la più antica testimonianza della frequentazione fenicia nella Sardegna settentrionale, in una fase ancora esplorativa e legata ai commerci da parte di quei navigatori semiti che più tardi si stanzieranno nei golfi di Cagliari e di Oristano.
Ad eccezione del bronzetto del Flumenelongu e dei frammenti ceramici rinvenuti nel nuraghe Santa Imbenia non si hanno altri reperti o strutture monumentali riferibili a questo periodo nel Nord della Sardegna.
Inquadramento geografico
La Nurra, la regione nella quale si trova il territorio di Alghero, è un’ampia piana fertile. È una regione agricola pianeggiante situata nel nord-ovest della Sardegna, nei territori compresi fra i comuni di Alghero, Sassari, Porto Torres e Stintino. E’ una zona ricca di fiumi e di aree minerarie come quella dell’Argentiera (Miniera d’argento) a nord ovest della piana, delle miniere di rame in località Calabona, poco a sud di Alghero e della miniera di Monteferro-Canaglia (al centro della Nurra) da dove si estraeva il ferro.
Probabilmente va cercata proprio in questi elementi la motivazione che ha portato fin da epoche remote al proliferare prima di insediamenti prenuragici e successivamente nuragici durante l’età del Bronzo Recente, Finale e del Ferro.
In particolare vanno sottolineate le caratteristiche geografiche della zona di Porto Conte, area in cui sorge il complesso di Sant’Imbenia.
L’ampia baia è caratterizzata da spiagge e arenili ed è protetta dai venti di Maestrale, elementi che la rendono ideale per l’approdo.
Il complesso nuragico di Sant’Imbenia
Il nuraghe di Sant’Imbenia è del tipo “a pianta complessa”: al centro spicca il cosiddetto mastio centrale[2], circondato da un bastione quadrangolare di cui sono visibili almeno due torri minori. Purtroppo lo stato di conservazione di questo nuraghe non è ottimale. È stata fatta la ripulitura della struttura muraria esterna esponendola per poterne leggere la planimetria. Le datazioni al C14, ottenute dall’analisi di alcuni prelievi fatti nel saggio effettuato in profondità nelle fondazioni del nuraghe, hanno reso datazioni che vanno dal 2000 al 1000 a.C. ca.
La parte più interessante del complesso nuragico di Sant’Imbenia è invece il villaggio nuragico intorno, databile tra il XV e il V sec. a.C., che sembra più recente rispetto al nuraghe.
Il villaggio rientra nella tipologia dei villaggi articolati “ad isolati”: le abitazioni a più vani si sviluppano attorno ad una corte centrale. Gli isolati sono separati da stradine e aree lastricate.
Dallo scavo del villaggio sono state riconosciute finora tre fasi di vita: secondo una lettura stratigrafica la prima fase sembra si possa attribuire al Bronzo Finale – Ferro I (1000-700 a.C. ca.); subito in connessione a questa ne è stata riconosciuta una del Bronzo Recente e Finale (1200-1000 a.C. ca.) e in successione viene poi la fase, finora più antica rinvenuta, attribuita al Bronzo Medio Finale (1400-1300 a.C. ca.).
Gli scavi hanno messo in luce diverse strutture interessanti facenti parte del villaggio. La più significativa, per via dei materiali emersi al suo interno, è la “Capanna dei ripostigli”, che descriverò in seguito.
Molto particolare anche la cosiddetta “Capanna con bacile”, anche se meno interessante dal punto di vista dei reperti rinvenuti.
Si tratta di una costruzione circolare che ha un diametro di 3,80m. Lungo la parete sono presenti dei sedili in arenaria ed un bacile, del diametro di 1,20m, al centro della capanna. Sono visibili, all’esterno e appoggiati al muro, anche i resti di un forno e di una vasca.
Due sono le principali tesi che descrivono l’utilizzo di questa capanna: potrebbe trattarsi di una capanna adibita alla panificazione o forse era funzionale per praticare cerimonie relative al culto dell’acqua.
Capanna dei ripostigli
Questa struttura deve il suo nome al ritrovamento, al suo interno, di due anfore vinarie riutilizzate per contenere dei piccoli lingotti di rame.
La capanna ha sezione quasi circolare con un diametro medio di 6,6m, i suoi muri perimetrali sono alti 1,20 m dal piano attuale di scavo. Questa capanna è stata usata in due momenti differenti riconoscibili grazie ad una prima pavimentazione lastricata risalente all’età del ferro e ad una seconda pavimentazione più antica emersa a qualche centimetro di profondità.
Su questa pavimentazione più profonda erano presenti una vasca, che presenta un foro di scarico, una canaletta scavata sul fondo che attraversa tutta la capanna ed una specie di focolare a forma di ferro di cavallo.
Si ipotizza che potrebbe trattarsi di un piccolo impianto industriale. Sono stati infatti trovati dei pani di rame intatti e/o frammentari a forma piano-convessa (le cosiddette panelle di rame, forma tipica dei lingotti sardi); in questa capanna sono stati recuperati anche frammenti di vasi fenici e provenienti verosimilmente dalla Grecia continentale risalenti alla fine del IX secolo a.C., che descriveremo più avanti nel particolare.
Le anfore, che fungevano da ripostiglio per i lingotti di rame, esteriormente sono molto simili tra loro, tuttavia presentano una fabbricazione differente: l’una è stata fabbricata al tornio, mentre l’altra a mano. Ambedue hanno una forma tipicamente fenicia, ma presumibilmente quella fatta a mano è un prodotto locale che imita le anfore fenicie.
Alle due anfore era stata tagliata la parte superiore, per poterci probabilmente inserire il rame; quella tornita è stata assegnata al tipo fenicio Bartoloni B2, stando almeno al profilo del corpo e alla posizione delle anse. La seconda riprende in tutto e per tutto l’esemplare fenicio, ma se ne differenzia per alcuni particolari, quali la bombatura del corpo e la forma nonché la posizione delle anse, suggerendo un’imitazione locale dello stesso tipo di anfora[3] che è stata nominata tipo ZitA (ZitA è l’abbreviazione del tedesco Zentral italische Amphoren).
I contatti con i fenici sono testimoniati anche da altri ritrovamenti: è particolarmente interessante da rilevare la presenza di vasi di uso domestico di fattura orientale, ciò ha fatto ipotizzare che alcune famiglie fenicie dovessero vivere stabilmente a Sant’Imbenia.
Sono documentati nel sito anche contatti con l’Eubea. Il ritrovamento di alcuni frammenti euboici, infatti, conferma l’importanza strategica della Sardegna nel processo di apertura dell’Occidente all’area Egeo-Levantina.
Fin da circa la metà dell’VIII secolo a.C. i greci dell’Eubea (insieme con Calcidesi ed Eritriesi) frequentano l’area tirrenica, in particolare Ischia e Cuma (località posta nel Golfo di Pozzuoli, di fronte a Ischia), dove fondarono poco dopo due colonie greche, ma si conoscono frequentazioni anche precedenti della Penisola, come dimostrano le necropoli di Pontecagnano e Capua da dove provengono elementi di produzione geometrica euboica. Non solo il Sud fu porto conosciuto dai navigatori greci, infatti esistono tracce anche nell’Etruria Meridionale, come a Tarquinia per esempio.
Gli scavi di Sant’Imbenia hanno portato alla luce frammenti ceramici pertinenti a vasellame di produzione greca, generalmente impiegato in occasioni conviviali: kotyle protocorinzia, skyphoi euboici e altre forme varie. Queste ceramiche, realizzate in pasta color crema, presentano una decorazione dipinta di colore bruno-nerastro o rossiccia, con chevrons, semicerchi pendenti e uccelli. I reperti datati alla Prima Età del Ferro (inizi VIII sec. a.C.) – che costituiscono le più antiche importazioni greche della Sardegna settentrionale – assumono grande rilevanza scientifica per il contesto di ritrovamento.
Da una visione di insieme di questi elementi sembrano potersi scorgere due diversi periodi di fervido interscambio tra la Sardegna e la Fenicia. Sulla base della quantità di reperti fenici ritrovati sull’isola sono state tracciate due direttrici di scambio nei due diversi periodi:
- Prima metà VIII sec. a.C. Testimonianze di importazione numericamente esigue.
- Seconda metà VIII sec. a.C. Elementi di importazione e testimonianze di cultura materiale più consistente.
La prima direttrice di scambio sembra essere rivolta direttamente al Levante da cui sicuramente provengono una coppa che si pensa di poter attribuire al tipo Samaria ware o Fine ware, una ceramica molto raffinata prodotta in area vicino orientale e raramente attestata nel repertorio occidentale; una piccola ampolla – oil bottle – usata per il trasporto di unguenti profumati che tanta fortuna ebbe nei mercati occidentali, due frammenti di ceramica con lettere fenicie ed uno scarabeo a sua volta importato dai mercati orientali[4].
Questi reperti sono stati ritrovati in associazione con uno skyphos euboico decorato a chévrons della seconda metà del VIII sec. a.C.
Un altro elemento significativo, come si è già accennato, è la presenza di una “cooking pot” (pentola), che rappresenta un reperto eccezionale ben noto nel Vicino Oriente (Tell Keisan, Megiddo, Hazor, ecc) ma finora mai attestato in Occidente.
La seconda direttrice di scambio (leggermente più recente rispetto alla prima), era rivolta agli insediamenti fenici del bacino centrale del Mediterraneo.
Ad ulteriore riprova di questo vivace interscambio con i centri fenici d’Occidente possiamo richiamare alcune delle forme ceramiche ritrovate nel villaggio, che sembrano far parte di quel repertorio elaborato fin dal primo periodo della colonizzazione. Una di queste è l’anfora di tipo geometrico metopale con confronti a Sulci, Mozia e Cartagine (da dove forse fu importata), che richiama lo stile decorativo del repertorio vascolare greco.
Anche lo sviluppo del tripode, che in Occidente generalmente è in terracotta, nel Vicino Oriente compare prevalentemente con esemplari in pietra (alcuni esemplari provengono dall’Etruria).
Anche le anfore commerciali a spalla arrotondata (tipo Bartoloni B) sembrano essere prodotte nelle colonie fenicie del Mediterraneo centrale.
Riguardo invece i contatti con l’Eubea secondo Kearsley[5], gli skyphoi a semicerchi pendenti sono da riferire alla fine IX – prima metà VIII sec. a.C. e quindi li attribuisce al Type 5.
Ne deriva che se è vero che gli Skyphoi provenienti dagli altri contesti della Penisola e della Sicilia sono riferibili al Type 6 Kearsley, si può affermare che gli elementi ritrovati in Sardegna siano di poco antecedenti a questi altri.
La presenza dei materiali fenici ed euboici nell’isola già alla fine del sec. VIII a.C. è ben documentata anche da altri contesti nuragici. Come testimonia per esempio l’olla stamnoide corredata di coperchio, proveniente dal sito di Sulki nel Sud dell’isola. L’olla quasi integra presenta la tipica decorazione a motivi geometrici che incorniciano in questo una coppia di uccelli.
A questo proposito possiamo provare a mettere in relazione questi reperti con alcuni simili provenienti dal contesto di San Rocchino, un sito etrusco con frequentazioni risalenti almeno alla fine VIII sec. A.C., che si trova in Toscana, nelle sponde del Lago di Massaciuccoli, che in epoca etrusca doveva come un’ampia laguna costiera.
In questo sito nella parte inferiore dello strato di torba, a contatto con la sabbia di base, era collocato un grosso frammento di contenitore[6] che per le caratteristiche tecniche (impasto che presenta una struttura compatta con numerose particelle litiche e cristalline, qualità degli inclusi di grandi dimensioni, consistenti in elementi vegetali anneriti durante la cottura) e per la morfologia dell’orlo ricorda molto quelle trovate a Sant’Imbenia. Questi elementi, infatti, hanno portato R. Dokter ad assegnarla alla classe ZitA 3, ipotizzandone un’origine nuragica.
A Sant’Imbenia, difatti erano presenti confronti soprattutto con la peculiare forma dell’orlo, estroflesso, non ingrossato, a profilo obliquo non ricurvo[7].
Sempre da San Rocchino provengono frammenti di ceramiche fini elleniche con decorazione geometrica di probabile produzione euboica e anfore da ritenersi di origine pithecusana del tipo ad ogiva (produzione fenicio-occidentale con possibile inquadramento cronologico tra la prima metà dell’VIII sec. a.C. e il VII sec).
Queste presenze fanno ipotizzare un probabile circuito di scambio che vedeva interessato il sito di Sant’Imbenia nel processo di distribuzione delle merci dall’area egeo-levantina a quella mediterranea e sembra potersi scorgere un collegamento forse anche diretto tra la Sardegna e l’area etrusca, come del resto parrebbe testimoniare il quadro di strette interrelazioni che legavano i due popoli e che è stato delineato soprattutto negli ultimi venti anni di ricerche, in seguito ad interessanti scoperte archeologiche che confermano i contatti (per esempio i tre bronzetti nuragici ritrovati in una tomba etrusca di Vulci ove erano sepolte entro urne cinerarie due donne).
Bibliografia
Bafico S. – Oggiano I., 1997, Alghero (Sassari). Località Sant’Imbenia. Villaggio nuragico. Il contesto indigeno. Scavi 1994 e 1995, “Bollettino d’Archeologia”, 43-45, pp. 136-141
Bafico S., 1999, Il nuraghe e il villaggio di Sant’Imbenia – Alghero, Sassari
Bafico S., 1991, Alghero (Sassari). Località Santa Imbenia. Villaggio nuragico, “Bollettino d’Archeologia”, 10, pp. 97-100
Bafico S. – Oggiano I. – Ridgway D. – Garbini G., Fenici e indigeni a Sant’Imbenia (Alghero), in Phoinikes b shrdn. I Fenici in Sardegna: nuove acquisizioni, a cura di P. Bernardini – R, D’Oriano – P.G. Spanu, Oristano, 1997, pp. 45-53
Barreca F., 1988, La civiltà Fenicio – Punica in Sardegna, pp. 15-20
Bonamici M., 2006, Anfore pitecusane dallo scalo di San Rocchino, in Annali della fondazione per il Museo “Claudio Faina”: Gli etruschi e il mediterraneo. Commerci e politica, Vol. XIII, Orvieto
Chiai G.F. – Tubingen, 2002, Il nome della Sardegna e della Sicilia sulle rotte dei Fenici e dei Greci in Età Arcaica, in Riv. st. Fen., XXX, 2, pp. 125-146
Gras M., 2003, Archeologia subacquea e commerci in età arcaica, Edizioni all’Insegna del Giglio, pp. 1-8
Lo Schiavo F., 1976, Il ripostiglio del Nuraghe Flumenelongu (Alghero), in “Quaderni”, 2, Sassari.
MAGGIANI A., 1990, S. Rocchino (Massarosa), in E. Paribeni (a cura di) Etruscorum ante quam ligurum. La Versilia tra VII e III sec. a.C., Pontedera
Moravetti A., 1992, Il complesso nuragico di Palmavera
Oggiano I., 2000, La ceramica fenicia di Sant’Imbenia (Alghero – SS), in La ceramica fenicia di Sardegna. Dati, problematiche, confronti, Atti del Primo Congresso Internazionale Sulcitano (Sant’Antioco 1997), a cura di P. Bartoloni e L. Campanella, Roma, 2000, pp. 235-258
Ridgway D., 1998, L’Eubea e l’Occidente: nuovi spunti sulle rotte dei metalli, in Euboica. L’Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente (Atti del convegno), Napoli, p. 311 e ss.
Ridgway D., 2002, Rapporti con l’Etruria con l’Egeo e il Levante. Prolegomena sarda, in Etruria e Sardegna centro-settentrionale tra l’Età del Bronzo finale e l’arcaismo (Atti del XXI convegno di studi etrusci e italici, Pisa-Roma, p. 215 e ss.
Rendeli M., 2005, La Sardegna e gli Eubei, in Il Mediterraneo di Herakles. Studi e ricerche, a cura di Bernardini P. e Zucca R., Roma pp. 90-124.
[1] Dal ripostiglio vennero alla luce 32 panelle di rame, 2 bracciali di bronzo, 1 scalpello, una accetta con occhielli, etc.
[2] Si tratta di una torre solitamente costruita con il metodo della tholos o falsa volta.
[3] Oggiano et alii, 2000, p. 48
[4] Fenici e indigeni a Sant’Imbenia, Oggiano & alii p. 47
[5] Kearsley, 1989
[6] La sigla che lo identifica è: cass. 122, equivalente a 31.10.1967, Z 5, t. 6. Il taglio 6 corrisponde al livello inferiore dello strato di torba che ha reso materiali di fine VII sec. a.C. (Bonamici M., 2006)
[7] Bonamici M., 2006, p. 487