Il comparto Vitivinicolo: l’interruzione dei contratti a causa del coronavirus e la distillazione di crisi
Edoardo Uslenghi
L’emergenza determinata dalla pandemia globale del COVID-19 ha costretto molte nazioni a ricorrere al cosiddetto Lockdown. Questa misura, pur con differenze e variazioni da paese a paese, ha determinato generalmente, la chiusura di gran parte delle attività commerciali, produttive e del terziario. Terminato il lockdown le aziende possono riaprire e ricominciare la loro ordinaria attività.
Tale sequenza di eventi ha determinato gravi conseguenze in molti settori ed anche quello legato alla produzione ed alla vendita di vino, non è andato esente da conseguenze. Oltre alle oggettive difficoltà legate al pagamento degli stipendi mentre le aziende sono ferme, oltre al problema di poter onorare tutti i pagamenti come i canoni di locazioni, le rate dei leasing e le scadenze di ogni genere, si pone anche una ulteriore questione. Terminato il lockdown le aziende possono riaprire, ma l’interruzione del lavoro per alcuni mesi, però, ha delle inevitabili conseguenze sui contratti in essere. Parliamo ovviamente di quei contratti di acqusito e fornitura, siglati prima del lockdown e che, sospesi nel periodo pandemico, devono essere gestiti alla riapertura.
In particolare si pongono due ordini di problemi:
- Da un lato l’interesse del fornitore ad andare esente da responsabilità in relazione al ritardo della prestazione
- Dall’altro il rischio che, dopo la sosta forzata il committente compratore abbia perso interesse all’acquisto, o abbia delle oggettive difficoltà ad onorare il costo della prestazione.
Premessa doverosa è che, in linea di principio, la strada migliore sarà quella di cercare tra le parti un possibile compromesso che possa soddisfare gli interessi di entrambi. Sarà evidente a tutti, infatti, che le conseguenze del lockdown non potranno essere addebitate ad alcuno e che nessuno potrà essere accusato di comportamento contrattuale non corretto. Trovare una soluzione transattiva consentirà di limitare il più possibile i danni e le perdite ed avrà il positivo effetto collaterale di consentire alle parti di conservare un buon rapporto commerciale.
Se però l’accordo non si raggiunge o non è possibile?
Iniziamo con il dire che ai sensi dell’art. 1218 c.c. “ll debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Questo principio generale dettato dal legislatore italiano in ambito contrattuale può fornirci già una prima importante indicazione in merito al primo problema poc’anzi menzionato, almeno dal punto di vista di quel soggetto che, tenuto ad una prestazione, non è riuscito ad eseguirla correttamente a causa della emergenza sanitaria.
Nel caso, per esempio, di un contratto per una fornitura di vino ad un acquirente, con ogni probabilità, nel contratto sarà stato indicato anche un termine entro il quale la fornitura completa doveva essere consegnata. Se tale termine non è stato rispettato a causa della pandemia, il soggetto obbligato potrebbe essere ritenuto non responsabile per il ritardo, poiché l’impossibilità è stata determinata da causa a lui non imputabile. In base al dettato normativo sarà onere del fornitore provare la causa della impossibilità sopravvenuta, ma nel caso in esame ciò non dovrebbe essere difficile. Salvo casi particolari la pandemia e la chiusura delle attività potrà fornirci una adeguata giustificazione. Anche in tale ipotesi però bisognerà porre la massima attenzione alle singole fattispecie. La chiusura delle attività, infatti, ha lasciato molti margini di discrezionalità ed il comparto alimentare era tra quelli autorizzati alla prosecuzione delle attività. Le oggettive difficoltà però, negli approvvigionamenti e nella gestione del personale dipendente, possono giustificare un eventuale ritardo.
E dopo la riapertura, tutto riprende regolarmente?
Non necessariamente. L’art. 1256 c.c., infatti, recita: “Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento. Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”. Terminata la causa del ritardo, quindi, la prestazione potrà essere eseguita regolarmente ed il contratto sarà salvo. Cosa accade però se il committente/compratore non è più interessato? L’ultima parte dell’art. 1256 c.c. però apre la porta ad una circostanza di grande attualità laddove recita che l’obbligazione si estingue se “il creditore non ha più interesse a conseguirla”. Questa eventualità, appare al momento la più pericolosa. La norma, infatti, sembra aprire alla possibilità che sia il committente a tirarsi indietro e non dare esecuzione al contratto.
In sostanza se era stato concluso un contratto per la fornitura di un determinato quantitativo di vino ed il termine per la consegna non è stato rispettato a causa del Lockdown, il fornitore potrebbe essere esente da responsabilità. Al contempo però il committente / acquirente potrebbe, a causa del ritardo, aver perso interesse all’acquisto della suddetta fornitura: la crisi del settore della ristorazione e le previsioni poco rosse potrebbero indurre gli operatori del settore a ridurre gli acquisti e le cantine. Ovviamente tale eventuale decisione del committente non è esente da rischi. È facile ritenere che la perdita dell’interesse debba essere legata al ritardo, seppur non imputabile al fornitore e non ad altre circostanze seppur legittime.
Come si può vedere i contratti rimasti in sospeso durante il lock down potranno determinare delle situazioni di incertezza che andranno analizzate caso per caso, di volta in volta, al fine di trovare la soluzione di adeguata e la tutela degli interessi del contraente.
In tale situazione già complessa, inevitabilmente, si vanno ad aggiungere i ritardi nei pagamenti che aggiungono crisi alla crisi. La mancata o ridotta vendita di vino potrebbe portare al periodo della vendemmia con le cantine ancora piene e poca propensione all’acquisto. Proprio in tale ottica è stato approvato dalla Conferenza Stato-Regioni un decreto, per tentare di porre un rimedio alla situazione venutasi a creare con la pandemia ed eliminare, attraverso la cosiddetta “distillazione di crisi”, distillazione facoltativa delle grandi quantità di vino in giacenza per destinare il prodotto ad altre funzioni e “svuotare” le cantine in vista della prossima vendemmia, cercando di garantire in questo modo una domanda di mercato che rischia, diversamente, di essere molto debole.
In entrambi i casi, in realtà, la soluzione più adeguata sembrerebbe quella di ricorrere al concetto di “impossibilità sopravvenuta”: questa circostanza potrebbe fornire una legittimazione e una giustificazione al soggetto obbligato ad una prestazione che non ha potuto portare a termine la prestazione a causa del lockdown. Non vi è dubbio alcuno, infatti, che il concretizzarsi di una tale ipotesi, ovvero una pandemia con conseguente intervento autoritario dello stato che vieta le attività produttive, non è certamente circostanza addebitale ad alcuno.